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NICOLA ROMANO D'un continuo trambusto (libro poesie)
Leggendo le poesie della raccolta “D’un leggero trambusto”, premio “Città di Marineo 2018”, noto in Nicola Romano una sviluppata “inventiva”
ramificata in molteplici direzioni del quotidiano esistere che da cima a fondo coinvolgono il lettore. Inventiva con la quale con tinte personali affresca paesaggi di mimetici calendari sfogliati dalle stagioni a cavallo delle quali nascono vivono e
muoiono generazioni d’esseri coi loro fardelli di sensazioni, dubbi e aspirazioni. Ci sono, nella raccolta, sprazzi di tempi lontani che riaffiorano nell’immaginario individuale in virtù di poetiche interpretazioni di genesi: “Con
quante dita / accarezzaste insieme / curve di arcobaleni / e furie d’onde / guance di sole / e soffici abbandoni / dimenticando / bombe e privazioni? / Immaginare non so / di quella notte / il fuoco e la passione / e intanto acceso / resta quel calore
/ che forse ancora / porto nelle vene” (Primogenito, pag.22). Così, dalla sarabanda di
umori “Ma tutto era per noi / grazia e incanto / se ballando cullavi i miei vent’anni / rimasti emulsionati in una foto” (Per una foto del ’66, pag.82-) emergono anche inconsueti paesaggi interiori che talvolta inopinatamente
affiorano e che l’ovvio pudore di norma provvede a rimuovere. Parlo di quel pudore dell’uomo comune che si scopre a pensare cose “strambe”, come i discorsi che silenziosamente (o, al massimo, sottovoce) ogni tanto si trova a fare con
sé stesso e che il poeta invece, giocando ad un livello superiore, condendo il pudore d’umorismo, riesce a fare lievitare, illuminando gli episodi d’ironia: “In modo regolare / mi frequento / m’apostrofo e mi stuzzico
/ con tocco rispettoso / mi busso dentro / e aspetto sotto casa / diffidente e guardingo / se nella controversia / voleranno parole / a tutto spiano // Solitamente / m’affronto e mi discuto / m’adombro e mi strattono / mi provoco e m’interrogo
/ col chiedere ogni conto / e ogni ragione / e nell’aspra contesa / mi perdo e mi ritrovo / m’offendo e mi perdono / mi cerco mi raggiungo / e non mi basto” (Contesa, pag.40). L’ironia rimane vigile anche in presenza di altre “fisime” tipiche di chi cerca di scrutare quale impressione possa eventualmente, il sé medesimo, suscitare allo sguardo altrui, qualora distrattamente
gli vengano posati addosso gli occhi, oppure se all’improvviso ci si ricorda di un andazzo strano del colore della pelle, segnali vari di un imperfetto quotidiano, tematiche che denudano anche fragilità incombenti, temute come avvisaglie di futuri
spaesamenti, vie crucis avare di resurrezioni: “A volte hai fatto finta / di guardare i prezzi / davanti a una vetrina / solo per controllare / nel torbido riflesso / i risvolti i capelli / e le toppe del cuore / la sagoma d’insieme
/ il piglio di giornata / o il sorriso in catene / andandovi di taglio / per l’ultimo riscontro / su eventuali piaghe / avanti e retro” (Vetrine, pag.31). Ci sono anche bucolici paesaggi (i quali spezzano i quotidiani percorsi su marciapiedi contornati da nafte e benzine) che suggeriscono suggestive traslazioni che viaggiano fra presente e passato: “e intanto / il rumore dell’acqua
– la nostra cometa – guidava i saltelli nel guado / dei nostri giorni insicuri / ed i gorghi impetuosi / sembrano gli anni falliti e da basso perduti”. (Valle delle cascate, Mistretta, Nebrodi, pag. 80). Passato, presente e futuro, dunque, fanno di frequente capolino fra le pagine poiché è “il tempo / chi ci ha buttati dritti e per intero / in questo inestricabile
mistero / Ed è un continuo peso di memorie / di bivi da imbroccare ad ogni costo /con la coscienza di essere in balìa /degli eventi insensati e mai decisi /nell’attesa che sia più comprensibile / un’altra vita un’altra
epifania” (Una catena, pag. 84).
IGNAZIO BUTTITTA dalla piazza all'universo ( a cura di Marco Scalabrino)
Marco Scalabrino (a cura di): IGNAZIO BUTTITTA, dalla piazza all’universo. Edizione dell’Autrice, Venezia 2019, pagg. 240. “Aveva una voce forte, ben modulata, bagherese nell’accento, che scandiva i versi e i ritmi mentre saliva al cielo, e poi si estendeva assieme alle sue braccia spalancate al mondo, e quindi precipitava nel cuore della
gente, e poi riprendeva a volare con le palme aperte delle sue mani, e aveva toni diversi, duttilità, intensità emotiva, dolcezza e vigoria, mentre si riempiva di suoni e di colori, disegnava nell’aria le immagini e i sentimenti delle poesie”.
Molto bello questo calzante ritratto in prosa fatto dal poeta Salvatore Di Marco, riportato nel libro di Marco Scalabrino che ha titolo “Ignazio Buttitta, dalla piazza all’universo”. Ignazio Buttitta nacque a Bagheria nel 1899 ed ivi morì nel 1997, attraversando così quasi tutto il crinale degli anni che si sono succeduti nel corso del secolo XX. Me lo ricordo in alcune sue recite durante i festival
dell’Unità che si tennero negli anni settanta in alcune delle numerose piazze siciliane. Fu quello un periodo che amalgamò le tensioni di un partito (PCI) sostenuto dalle masse operaie e intellettuali proteso alla conquista di diritti sociali
(statuto dei diritti dei lavoratori, assistenza sanitaria generalizzata, scolarizzazione di massa) con l’animo poetante di un ex salumiere di Bagheria il quale condensava in sé i molteplici volti isolani da lui stesso declamati spingendosi
anche a farsi portavoce delle vittime di feroci attentati quali quelli che raccontano la strage di Portella della Ginestra, dell’omicidio del sindacalista Turiddu Carnevale, del minatore mazzarese Turi Scordo morto nella strage della
miniera di Marcinelle, in Belgio. Girando in quel periodo in lungo e in largo per la Sicilia e partecipando a molteplici iniziative culturali televisive Ignazio Buttitta acquisì una straordinaria notorietà che in quegli anni lo rese celebre quale
poeta dialettale siculo. Ma la sua avventura poetica partì diverso tempo prima, negli anni venti, quando conoscendo una maestra che divenne in seguito sua moglie, scrisse per lei il poemetto “Anciula”. Molti decenni dopo, ricordando
quelle sue prime esperienze, così scrisse: “A ddi tempi, / iu facìa ‘u putiaru: tagghiava tumazzu, / fillata, / baccalaru / e zoccu mi capitava. / Durmìa nno sularu da putìa: /cammara addubbata, / matarazzu ri crinu,
/ cannila addumata: / scrivìa di notti / na carta ‘i sapuni; io, u putiaru [‘u fici] pi vint’anni / e scoli picca./ Avìa setti figghi, me matri, /mi mannava all’Università? / A dd’epuca ‘i putìi
si grapìanu / e quattru di matina: / a notti scrivìa / - e si mi java bona - / durmia tri uri”. Ignazio Buttitta pubblicò opere di poesia dialettale
dal 1923 al 1986. A fornirci una grande mole di informazioni aneddotiche e letterarie sul poeta di Bagheria, fondate sulla certosina ricerca e lettura critica di commenti apparsi nel corso del Novecento su libri e riviste, è Marco Scalabrino che
le ha condensate in un organico volume di 240 pagine edito a Venezia da “Edizione dell’Autrice” di Antonella Barina. Fra le numerose citazioni critiche riportate a supporto del meticoloso studio, frequenti sono quelle del poeta Salvatore
Di Marco, di Palermo il quale molto ha scritto sia su riviste che su opere monografiche su Ignazio Buttitta, ma non mancano quelle di Maria Nivea Zagarella, stimata conoscenza siracusana che nel corso degli anni su molteplici riviste ha dedicato una fitta
serie di saggi su molti autori siciliani noti e meno noti, sempre degni di lode per acume introspettivo e paziente ricerca filologica. Fra i primi spiacevoli episodi accaduti al giovane Buttitta si apprende della esperienza amara sofferta a causa del poeta
Alessio Di Giovanni il quale, gli restituì senza alcun commento, ben due anni dopo averlo ritirato dalle sue mani, il manoscritto Marabedda”, che Buttitta gli aveva affidato con preghiera di vergarne la prefazione e di curarne la traduzione in
lingua italiana. Da allora tra i due poeti non corsero mai simpatie letterarie e umane”. “Sintimintali” e “Marabedda”, le prime due opere di Buttitta,
pubblicate negli anni ’20, in vero, sono opere sulla cui validità diverge la critica letteraria moderna. Nel periodo del fascismo egli pubblicò alcune sparse poesie su riviste letterarie che sporadicamente si stampavano in Sicilia. Dal
1954, anno in cui pubblicò il libro “Lu pani si chiama pani”, secondo gli studiosi e critici della poesia di Ignazio Buttitta, comincia la storia letteraria del poeta bagherese intessuta di contenuti sociali ravvivati da popolari messaggi
che egli seppe vividamente “illustrare” alle genti radunate nelle piazze per ascoltarne la voce e nutrirsi della sua fantasia che tappezzava di colorite immagini icastiche le orecchie dell’uditorio. Ciò nel mentre nel corso degli anni
scrisse La peddi nova (1963), La paglia bruciata (1968), Io faccio il poeta (1972), Il poeta in piazza (1974), Pietre nere (1983), titoli dei successivi libri. Questo di Marco Scalabrino è un libro ricco di citazioni e pareri anche contrastanti sulla figura del “discusso” poeta esemplare che attratto dal fascino della sua sirena, la studiò metabolizzandola secondo la propria inclinazione
ricavandone, successivamente, una personale sintesi che espresse col linguaggio dialettale corrente del suo tempo, attento al fatto che esso linguaggio fosse vivido e comprensibile, avendo l’obiettivo di trasmettere e coltivare nel cuore del suo uditorio
la solidarietà per i tanti poveri cristi contemporanei crocifissi al palo della miseria economica e della ingiustizie sociali, qualità che egli seppe amalgamare in maniera naturale e spontanea e che certamente suscitò la gelosia di molti
poeti “laureati”. Luigi Lombardi Satriani – come riporta Scalabrino- scrisse “In Buttitta vi è questa contemporanea presenza di tensione civile e di tensione poetica, di capacità di denuncia dell’oppressione
e delle ingiustizie e di invenzione di metafore e di immagini di grande originalità e suggestione.” Questo libro di Marco Scalabrino, raccogliendo organicamente i pareri
di una moltitudine di qualificati critici, alcuni dei quali a loro volta poeti, compone un mosaico i cui tasselli distribuiti lungo l’arco del secolo XX oltre a ravvivare la memoria del poeta illuminandone aspetti poco noti contribuisce a far prendere
al lettore la cognizione d’un personaggio che con la sua poesia costituisce un sicuro emblema dell’Italia che uscendo dal periodo nero del fascismo ha faticosamente risalito la china della democrazia la quale, ahinoi è sempre disseminata
di rigurgiti medievali. La recensione si trova anche alla seguente pagina internet http://www.literary.it/dati/literary/g/giordano/ignazio_buttitta.html
Gaetano Spinnato IL VENTO TRA I PAPAVERI
Il vento tra i papaveri, edito da Youcanprint, è il titolo di una recentissima plaquette di versi pubblicata da Gaetano Spinnato, autore che
già in passato ha pubblicato una piccola raccolta di racconti dal titolo L’odore del tempo, edita da Il Centro Storico, e una collezione di mutti, muttetti e jautru ru me paisi, dal titolo A miercu cunfusu.
Scorrendo le pagine della raccolta si capisce che il vento, soggetto del titolo del libro, è metafora del tempo che scorre e i papaveri sono emblema della natura cangiante a seguito degli
effetti del vento. Non a caso, forte e pregnante si staglia, ad inizio della raccolta, ovvero all’inizio del tempo considerato dall’autore, la figura del padre, che con
commossa ansia non appena riceve l’ok, si precipita a osservare l’evento miracoloso della nascita del primo figlio: “Tanto mi parlavi / di una corsa, / con il vigore dei tuoi anni / verso casa / e di un bacio, / di te, curvo su di me,
/ appena nato.” Un padre come tanti che guida il figlio lungo il percorso della vita, contento “ad ogni gradino della vita che salivo”. Un padre che,
di norma, per legge naturale, precede il figlio in tutte le evoluzioni della vita, cosicché “ora sono qui, / chino su di te, per ritornarti quel bacio, l’ultimo bacio sulla tua fronte … fredda.” La metafora del tempo che scorre inesorabile si esplica in canto che accarezza i visi dei familiari tramite il ricordo di avvenimenti e sensazioni passati e presenti: “Con fili di seta ricamavi la vita, /
su rami di sole posavano i giorni / che del dolore ignoravano il tempo. // E vennero pure momenti di sale, per te figlia, moglie poi Madre, / con gli occhi bassi vidi fermo il tuo labbro, / ma il tuo volto mai negò un dolce sorriso. // Seduta ormai
in alto, sui gradini degli anni, / stringi forte in un pugno i giorni più belli, dall’altro allontani polvere e vento.” Anche il mistero della vita in procinto
di finire che traspare sul corpo dell’amato cugino disteso, senza più coscienza di sé, su un letto d’ospedale è fonte di meditazione “C’è sempre una carezza sui tuoi occhi / che fissano muti l’orizzonte”
e anche consapevolezza che la morte non cambia l’essenza del tempo passato: “l’ondata di risacca non cancella / le tue impronte lasciate in riva al mare.” Seppure, lavorando quale infermiere presso l’ospedale, abbia professionalmente acquisito dimestichezza con le transizioni dei corpi, Gaetano Spinnato conserva una fresca sensibilità che gli consente ancora stupori verso quegli impercettibili
miracoli che la natura continuamente riserva a quanti si accostano ad essa con animo di poeta che coglie le sfumature dei giorni che si rincorrono maturando anni eppure, al contempo, giorni composti di attimi dei quali gioire, seppure vittime dell’eterno
fluire: “Mi è capitato svegliarmi all’improvviso / e tra le ombre lucenti del mattino / vedere nel mio giardino un fiore nuovo. / Scendo per non perdere il momento. / Solo ieri un filo d’erba puntato verso il cielo. / Oggi profuma
di vento in riva al mare, / colora di un sogno con la luna piena. / Chissà domani … / Magico è il giro della vita. / Sbuca un fiocco alla finestra: / Sali papà è già tardi per la scuola.”
Filippo Giordano Il Centro Storico, Gennaio Febbraio 2015 la recensione si trova pubblicata anche alla seguente pagina internet http://www.literary.it/dati/literary/g/giordano/il_vento_tra_i_papaveri.html
Gaetano Spinnato L'ODORE DEL TEMPO
L’interesse di Gaetano Spinnato per le composizioni letterarie è molto antico. Per “interesse” intendo qui quel rimescolio interno di umori e sensazioni che con imperio
talvolta comandano alla psiche di uscire allo scoperto con ordine poetico soggettivo, cioè come sintesi umorale favolistica in grado di rimuovere l’amaro fiele che piove da un cielo di acide nuvole in alcuni periodi della nostra esistenza.
Già nei primi anni ottanta, infatti, Gaetano Spinato aveva aperto un cantiere artigianale di composizioni poetiche e con queste ebbe allora modo di misurare il proprio estro creativo coi
componenti le giurie di alcuni concorsi di poesia che si tenevano in varie località della nostra isola, ottenendo alcuni significativi riconoscimenti. Successivamente, distratto da impegni sportivi (per circa 15 anni ha militato nella squadra calcistica
del Mistretta) e subentrati impegni lavorativi prima e familiari dopo, accantonò i versi scritti con la biro dedicandosi a quelli più urgenti e concreti che richiedevano le due splendide figlie nel frattempo nate. Fra l’attività
lavorativa di infermiere professionale e quello, non tanto sporadico, di pastore di mucche indigene appartenenti all’anziano padre, fra un cambio di pannolini e il canto di una ninna nanna non trovarono spazi altri momenti creativi. Era quello
il periodo di accumulare esperienze e l’unico diletto artistico consisteva, talvolta, nel commentare alcune esperienze con una benevola ironia in grado di divertire gli astanti e di indurli alla riflessione. Ma, superata la soglia del terzo millennio, all’improvviso Gaetano sente ritornare la voglia per una passione che, evidentemente, era stata solo temporaneamente rimossa. Una passione verso la composizione letteraria mai
abbastanza sopita, bensì latente e in attesa di risorgere alla luce di una più ampia esperienza umana nel frattempo maturata fra le alture e le vallate campestri di queste propaggini dei Nebrodi, nonché fra le corsie dell’ospedale
di Mistretta dove, lavorando, può soffermare l’attenzione verso una umanità che transita, talvolta sbigottita ma non rassegnata. L’imput per questo ritorno
scaturisce dalla conoscenza del bando di concorso di narrativa che l’associazione Progetto Mistretta nel corso dell’anno 2004 indìce per onorare la memoria della scrittrice Maria Messina. La lettura delle opere della scrittrice siciliana,
che visse sei anni della sua giovinezza a Mistretta, dove ambientò quasi tutti i racconti dei suoi primi due libri, pubblicati rispettivamente nel 1909 e nel 1911, si rivela così come momento propulsivo. La scoperta che tanti personaggi comuni
della vita sociale di un secolo prima, filtrati dalla sensibilità creativa della giovane scrittrice, abbiano acquisito dignità letteraria e grazie a ciò superato l’oblio del tempo, riabilita nella mente di Gaetano le storie comuni,
e talvolta infime, di altri personaggi da lui direttamente conosciuti e lo induce a ripercorrere alcuni suoi sentieri che si sono incrociati con altre umane esperienze che in lui hanno lasciato un indelebile segno. Fra le sue figure descritte giganteggia, anche per la sapiente impostazione, quella di “nonno Tano”, persona che egli descrive con rapide pennellate di colore agreste, lungo un sentiero temporale che attraversa buona parte
del ventesimo secolo. Al di là della avvincente trama che conquista la simpatia del lettore, il valore essenziale del racconto e l’opera meritoria dello scrittore si colgono nella sapiente collocazione di termini bucolico – agresti dei quali
dimostra una padronanza linguistica precisa e puntuale che denotano una conoscenza delle arti silvo – pastorali non comune. Il racconto diventa così una specie di
punto d’incontro fra presente e passato remoto, un archivio museale dei gesti e delle consuetudini di una classe lavoratrice mai sufficientemente tenuta in debita considerazione, detentrice di una professionalità misconosciuta. Ecco quindi che il pregio maggiore dei racconti è, secondo me, da riscontrare in questo consapevole lavoro di ripescaggio di verbi e vocaboli tipici, finemente allineati in consequenziale progressione.
E di questo sapiente lavoro si sono accorti le giurie di alcuni concorsi, composte da qualificate personalità della cultura isolana, premiando i lavori di Gaetano Spinnato. Valga per tutti
la edizione 2006 del premio Erice-Anteka presieduta dal prof. Salvatore Di Marco, poeta fra i più validi del panorama siciliano contemporaneo e studioso della lingua siciliana. A
Gaetano, poeta che alla ricerca di uno stile personale, negli ultimi anni si è voluto mettere in discussione e confronto fra i molteplici concorsi isolani ai quali ha partecipato, arrivando sempre più spesso fra la rosa dei premiati, relativamente
alla narrativa vorrei dire che secondo me il suo tragitto personale e da perseguire proprio lungo questa scia di connessione fra presente e passato perchè coi suoi fluidi innesti gergali egli occupa, senza usurpare ad altri, la sedia di bravo consigliere
alla corte del tempo che, tutto modificando, scorre imperturbabile sulle vicende umane.
Filippo Giordano
Gaetano Spinnato A MIERCU CUNFUSU
Dopo questa ultima pubblicazione, acquisiamo certezza che alla pazienza del ricamare versi e a quella dello elaborare aneddoti, Gaetano Spinnato aggiunge quella della raccolta dei motti
e proverbi prettamente dialettali in uso a Mistretta, alcuni dei quali certamente di esclusivo uso locale e altri probabilmente comuni ad altre aree geografiche della Sicilia. Nella
sua introduzione alla raccolta Gaetano scrive “In questo volume ho raccolto motti, imprecazioni e modi di dire in lingua “Mistrettese”, così come uscivano dalle bocche
di questi uomini, nella maggior parte analfabeti, che, solo oralmente, sono riusciti a tramandare parte della loro cultura; una cultura che si muoveva nell’area della natura, nel paesaggio bucolico e negli umori agresti. L’emigrazione fece considerare
questa cultura come espressione di arretratezza e per questo motivo, quindi” da emarginare se non addirittura da dimenticare.” Gaetano non si è limitato alla
mera raccolta delle frasi particolarmente colorite dei motti. Ha anche condotto una ricerca etimologica, senza le quali, molte frasi colorite corrono il rischio di essere incomprese oppure male interpretate. Ad esempio, io la frase: “O unchj o sdunchj
a essiri o carciri ri Longi”(o gonfi o sgonfi, devi essere al carcere di Longi) l’avevo sentita dire, ma non ne comprendevo, a pieno, il significato: Un contadino preoccupato perché qualcuno rubava nel suo campo di fave, decise di appostarsi
di notte per cercare di sorprendere il ladro. Fu soddisfatto quando scoprì il colpevole che non era altro che un grosso rospo. Lo legò e mentre lo trascinava
gli recitava il detto. Ecco un piccolo campionario di altri motti: Cu ra vecchia si nnamura si la pila la vintura; socchi si manìa nun si risìa; ri schiettu a-ffinuocchi, ri maritatu a carduna; n’aviri né re, né regnu;
Ciccu cumanna a Cola e Cola cumanna a Ciccu; ccià-rrivaru i bbaddi nno culu; cci fici veniri u tuòmmulu. È questo libro, dunque, una sorta di patrimonio
lessicale parzialmente ancora in uso, pazientemente annotato nel corso del tempo. Un ulteriore prezioso tassello di un ricco mosaico verbale tramandatoci dai nostri progenitori che sebbene già abbondantemente trascritto dal maestro Enzo Romano, non
sembra ancora avere esaurito la vena. Filippo Giordano Il Centro Storico, n. 5-6/2012
Francesco Cuva GIARABUB
Dopo il saggio storico dal titolo “Cerami”, edito nel 1984; l’approfondito studio monografico sullo scultore Noè Marullo, edito da Thule nel 1985; “Società
e cultura a Capizzi”, pubblicato con la Pungitopo nel 1987; “Mistretta, da Martino il giovane ad Alfonso il Magnanimo”, segmento storico (1392-1468) pubblicato nel 1991 (edizioni Valdemone); l’affresco storico “Mistretta nel ‘500”
stampato nel 1997; “Sulla linea del fuoco”, elaborazione del diario del tenente Bartolotta sul fronte della prima guerra mondiale, al confine con l'Austria, pubblicato nel 2005, nel corso del corrente anno 2012 il professore Francesco Cuva ritorna
in libreria con un ennesimo libro storico: “Giarabub”, pubblicato da Thule di Palermo, che vanta una prefazione di Tommaso Romano, direttore editoriale della casa editrice, già assessore alla cultura della provincia regionale di Palermo.
Giarabub si trova in Cirenaica, Libia, in pieno deserto. Nel 1925, grazie all’acqua che vi sgorgava dappertutto, era un’oasi divenuta col tempo fortino, che costituiva un punto di riferimento per tutti i nomadi e i carovanieri. Per
la sua collocazione geografica era considerata la porta del deserto libico. A 120 chilometri di distanza Siwa, altra oasi, caposaldo inglese a est, era considerata la porta del deserto egiziano. Nel Giugno del 1940, al momento della dichiarazione di
guerra fatta unilateralmente da Mussolini alla Francia e all’Inghilterra, l’esercito italiano di stanza in Libia, si trovò improvvisamente in guerra coi vicini inglesi. Scarsamente armati, i giovani soldati italiani, combatterono strenuamente
per quasi un anno in difesa di quell’avamposto, fino alla inevitabile capitolazione. Francesco Cuva narra le gesta di quei ragazzi strappati al nativo suolo italiano dal dovere patriottico imposto dalla illusione del Duce di spartirsi l’Europa
con Hitler. Al piglio distaccato dello storico, l’autore alterna la pietà per quegli audaci soldati (alcuni dei quali suoi conterranei successivamente conosciuti nonché fonti dirette di alcuni degli episodi narrati) fatti prigionieri
dagli inglesi e ritornati in patria solo nel 1946. Filippo
Giordano
Francesco Maria Di Bernardo Amato ELEGIA DELLE BEATITUDINI
Collocando la terra in una posizione affatto speciale all’interno dell’universo, il principio copernicano ha implicitamente detronizzato l’umanità da una posizione
di privilegio. La qual cosa ha trovato enormi resistenze da parte di chi vedeva pericolosamente crollare una parte delle impalcature filosofiche sulle quali aveva costruito il proprio potere. La feroce caccia alle streghe venne quindi estesa agli
scienziati che propugnavano la tesi, tacciati per questo di implicita eresia. La stessa teoria evoluzionistica di Darwin, secoli dopo, sfatando il mito dell’eden primordiale, ha causato l’apertura di un baratro fra detrattori e sostenitori. Gli
uni arroccati su posizioni dogmatiche, gli altri propensi a rimettere in discussione le presunte bibliche certezze. La divaricazione fra le parti ha innestato preconcetti e reciproca estraneità ai rispettivi valori. Così, per spirito di contraddizione
nei confronti di sciocchi ministri, molti di noi hanno estraniato Dio dalla propria quotidianità, salvo poi riscoprirlo come somma algebrica di una serie di frazioni non infinitesimali di valori della propria esistenza, altrimenti figlia del caso, fratello
gemello del caos “E dentro da Oriente ad Occidente / L’Invisibile non è luogo ma Speranza” osserva Francesco Maria Di Bernardo - Amato, “Perché poi, quando la nebbia / Dirada, riappare il colore celeste /
Del mare e del cielo e quasi / Impercettibile un sorgere di raggi / Un Oriente…” Certo è fatica improba e appesantita dalla gravità terrestre il risalire dal basso la china del monte dal quale rilanciare uno sguardo per
colmare il vuoto dello spazio intorno. Una risalita lenta, intervallata da pause speculative come quella di Umberto Eco, a commento di un ottimo libro di Marcus du Sautoy, docente di matematica all’Università di Oxford, apparsa in una delle
sue famose “bustine di Minerva” dell’editoriale “L’Espresso”, in calce ad una serie di interrogativi sulla caotica apparizione dei numeri primi all’interno dei numeri naturali: “Ora smetto di fare il
matematico, e passo alla metafisica. Immaginiamo che ci sia un Mente Divina (per gli intimi, Dio) che, essendo infinita, coglie in un battibaleno (come faccia, sfugge alle nostre capacità di comprensione) la serie infinita dei numeri. Azzardo anche
(e irresponsabilmente) che possa esistere una Matematica Curva per cui, giunti a un numero di fantastilioni di fantastilioni di cifre elevato ad altri fantastilioni, il numero successivo imploda su se stesso e si riduca all’unità (Dio, uno e infinito,
non sarebbe allora altro che la serie circolare dei numeri primi). In tal modo Dio conoscerebbe anche la serie (finita o infinita) dei numeri primi. Ora, o la loro successione segue una regola, noi non la conosciamo ma Dio si, e allora tutto andrebbe bene,
almeno per Dio. Oppure i numeri primi arrivano davvero per caso, e in tal caso Dio si troverebbe di fronte al Caso, e del Caso sarebbe l’effetto, o almeno la vittima non onnipotente (oppure Dio e il Caso sarebbero la stessa cosa). Quindi trovare la regola
per prevedere la successione dei numeri primi sarebbe l’unico modo per provare non dico l’esistenza ma almeno la possibilità di Dio.” Ma qualcuno certamente finirà col trovarla, oppure l’ha già trovata, la legge matematica che regola il flusso dei numeri primi, una legge “ontologica” che è disegno di perfezione (anteriore all’umanità)
come tutte le leggi della matematica e della fisica che rispondono a disegni della natura e che però per “apparire”, per farsi vedere, abbisognano di un preciso approccio, contatto che mi sembra di scorgere anche in questi versi: “In
tutto il cielo con l’occhio cerco il passaggio / Tra un buio e l’altro delle stelle / E sola col pensiero naviga la mente / Estesa e senza tempo all’infinito / Senza più l’ansia del niente // Tutto (ora) si empie immenso in me
/ Il cielo delle età che non vidi / E passanti i confini di Babele / Quanto dopo verrà nel silenzio / Assoluto della storia.” Approcci che sono flussi a cui,
inevitabilmente, seguono riflussi perché il seme del dubbio mai lascerà l’umanità (Padre, perché mi hai abbandonato? chiede gridando finanche il Nazzareno), come bene interpreta Di Bernardo: “Sfiorati / da
un battito d’ali e ce ne andiamo / con la mente in bilico sul filo di Gorgia / che non ha più valore sul nulla che genera / la bellezza in fronte: il Bene è più su e non scorge il filo sottile, Gorgia i suoi anni assimilati al millennio
/ e il battito d’ali sopraggiunto lassù sul promontorio / azzurro che scintilla al sole occhio del divenire…” Oggi anche i cosmologi riconsiderano
l’ipotesi di una possibile posizione speciale “della nostra galassia che si troverebbe al centro di un gigantesco vuoto cosmico” causato da un “universo non omogeneo in quanto la densità di materia potrebbe variare a grande scala,
e la terra potrebbe trovarsi nei pressi del centro di una regione relativamente meno densa rispetto ad altre, altrimenti indicata come vuoto” (Le Scienze, giugno 2009). Guardandoci indietro nel tempo, i passaggi dalla scoperta del fuoco, a quello della
parola e della scrittura hanno certo richiesto secoli e secoli e sembreremmo (e siamo) a quei cospetti, in fase evolutissima, ma niente sappiamo di altre intelligenze extraterrestri ed anche a scoprirle domani, chiederemo e ci interrogheremo se un disegno
del caos possa generare un pensiero perfetto. Filippo Giordano
Francesco Maria Di Bernardo Amato IL SILENZIO DEL LETE
Ho letto più volte “Il silenzio del Lete”, edito a Bologna da Book, di Francesco Di Bernardo, medico cardiologo nativo di Mistretta (Messina),
da diversi decenni residente a Pordenone, per sincerarmi di una angosciosa impressione ricavata ad una prima frettolosa lettura, suggestionato dal titolo e dall’immagine della copertina (particolare della “Villa sul mare” di Arnold Bocklin)
e da alcuni versi, fra i quali: “Forse si sente solo la voce / Come un richiamo o grido / O lamento singhiozzato / Di un invisibile gufo fra i cipressi / O una civetta mentre l’anima / In compagnia di un’ombra lieve / scorre muta verso l’isola
di Bocklin”. Lo confesso: nonostante i diversi passaggi non sono più riuscito a scrollarmi la impressione che il libro, sia pure arricchito da diverse preziosità
barocche, è pervaso da un humus disperante. Quella sensazione che ciascuno vive accanto al feretro di una persona cara. Una sensazione profonda che ti pervade tutto e ti conduce nel tempo lontano che è stato tuo e ancora oltre. Ecco, l’autore
descrive ciò con abile regia, recuperando a flash-back scene di vita “Babette vendeva scarpe a Portocervo / Io e Cosimo la conoscemmo in spiaggia / Mentre prendeva il sole / Nuda coi suoi peletti biondi // Finita la stagione sarebbe
ripartita / Girava realmente per tutti i paradisi / Della terra così leggera / Da un’estate all’altra”. Un prologo solare ma lontano nel tempo che mi viene
da associare alla musica che apre il secondo atto di “Thais, opera della maturità di Jules Massenet: la Meditation, brano orchestrale di grande lirismo, trasognata poesia e intima religiosità. Ma, sovente, i flussi dei ricordi si ritraggono
come una marea meditando il destino comune: “Quelli che alla stazione / Agitano la mano per salutare / Il treno che parte hanno / La tristezza nel cuore / Nel vedersi lasciare / L’inferno per questo / Sapere tutti i giorni / Come è bello
vivere / E un giorno / doversene andare” e mi viene da associare questa struttura del libro ad un altro conosciuto brano della musica strumentale barocca: il “Canone a tre voci in re” di Pachelbel, una melodia che è riecheggiata dalle
altre voci e che sembra distribuirsi in una serie di cerchi concentrici, cerchi che, nel libro, si espandono in molteplici esperienze e si ritraggono e confluiscono nel “nessundove”: “Ma non è nulla / Ora che agosto finisce e la tragedia
/ E tutto è finito”. E mi viene da pensare ad un brano di musica classica che scoprii quando avevo circa vent’anni nel juke – box di un bar: il Largo dall’opera
Serse di Haendel, una melodia struggente che mi piaceva molto, nonostante i vent’anni. Ma nonostante somigliasse ad una melodia funerea (come diceva un mio amico che con me sorseggiava un caffè caldo) era, invece, nell’intenzione dell’autore
un canto d’amore. Così come, tutto sommato, è “Il silenzio del Lete” di Francesco Maria Di Bernardo Amato.
Filippo Giordano
Sebastiano Lo Iacono (Auto)RITRATTI
SEBASTIANO LO IACONO, (Auto)ritratti, Mistrettanwes 2012, pagg. 246, € 16,50 Gli “(Auto)ritratti” di Sebastiano Lo Iacono,
Tatà per amici e familiari, è una delle ultime pubblicazioni che si avvicendano nelle edicole locali. Si tratta di un corposo volumetto di oltre 240 pagine, stampato con la sigla editoriale Mistrettanews2012. Il libro, che in copertina si avvale
della riproduzione di un quadro dell’artista Antonino Tamburello dal titolo “Crepuscolo onirico”, raccoglie una serie di commenti sulle opere letterarie e artistiche di una densa schiera di autori mistrettesi, in prevalenza
contemporanei, in precedenza singolarmente pubblicati sotto forma di prefazioni di libri di poesia e depliant artistici, nonché relazioni di manifestazioni culturali e lettere semi ufficiali ad amici scrittori. Scrive, fra l’altro,
l’autore nella sua prefazione: “Questi (auto)ritratti hanno un destinatario: Mistretta, città madre e paese dell’anima. Sono cenno, segno e simulacro di un amore (temo non ricambiato) alla città natale. Sono frutto
di un’amicizia anche intima e intensa. Amicizia e innamoramento sono stati i moventi. Auspico che non siano rinviati al mittente. Sono fotografie di identità individuali che danno statuto ontologico al ritratto della mia identità.
Sono riflessi. Immagini speculari. In loro mi conosco e sono ri-conosciuto”. Chi sono, quindi, questi individui che, nel tempo, hanno inconsapevolmente offerto l’occasione
di dibattere temi culturalmente proiettati nelle varie latitudini della umana dimensione a colui che attentamente osserva le originali escrescenze verbali e/o immaginifiche del territorio? Antonino Pagliaro, Mario Biffarella, Enzo Salanitro, Giuseppe Sirni,
Giuseppe Ciccia, Felice Pignatello, Francesco Maria Di Bernardo Amato, Mariangela Biffarella, Enzo Romano, Liborio Oreste, Tommaso Aversa, Nella Seminara, Nina Valenti, Liria Ribaudo, Mariano Bascì, Noè Marullo, Gaetano Di Bernardo Amato, Gaetano
Todaro nonché l’autore del libro e l’autore di questo articolo. Il libro, quindi, è per Lo Iacono l’occasione per ri-parlare di temi a lui cari: dallo studio colto del linguaggio, espresso dalla magistrale avventura professionale
del professor Pagliaro alla lingua popolare magistralmente interpretata dai racconti di Enzo Romano; dall’arte pittorica a quella scultorea; da quella fotografica antica a quella moderna; dalla poesia alla narrativa. Questa sorta di specchio che soggettivamente filtra e sintetizza l’alterità, offre, al contempo, ai soggetti focalizzati, specchiandosi, la possibilità di godere di una propria immagine con chiaroscuri
diversi da quelli abituali, più gratificanti rispetto ad una generalizzata indifferenza da parte di quella umanità rivolta altrove che quotidianamente rincorre soluzioni di stabilità in un mondo perennemente precario: “Enzo incespicava
con gli SMS e decisamente rifiutava le e-mail. Questo non significa che fosse fuori dal tempo. Sono, piuttosto, certi giovani che rifiutano la lingua madre in quanto abitano in un tempo falso e in autentico”. Spesso la necessità di
elevarsi dal quotidiano (pur essendovi perfettamente integrati) è per l’artista e il poeta una specie di dannazione cromosomica dalla quale non si guarisce e che fa sentire isolati. Trovare, ogni tanto, uno “specchio parlante”
che armoniosamente ricompone la frammentata immagine del sé aiuta a ritrovare la oggettività persa nei meandri delle sere che chiudono i sogni e bisogni quotidiani. Eppure,
questa specie di smania ritrattistica che giova al ritrattato e al ritrattante, questo “specchio parlante” non si limita al mero riflesso dell’immagine asetticamente circoscritta poiché il periodare è frequentemente e piacevolmente
fabulatorio: “Pignatello girò paesi e città, contrade e trazzere, masserie di campagna e terrazze di famiglie borghesi e aristocratiche, cucine e fucagni, forse bordelli e certamente salotti dell’alta borghesia terriera onde sfogare
la voluttà del guarda che ti guardo, vera e propria follia, ebbrezza, delizia, estasi, eccitazione del vedere dal mirino di un qualche strumento fotografico che, sicuramente, all’epoca, era
privo di diavolerie tecnologiche”. Annunciato, in apertura del libro, come volume primo questo(Auto)ritratti avrà evidentemente un seguito e la qual cosa servirà a consegnare ai posteri del nostro circoscritto territorio
un pezzo dello specchio culturale di questo nostro tempo che tristemente s’invola.
Sebastiano Lo Iacono IL CIRCOLO UNIONE DI MISTRETTA, 150 anni dopo
Il libro “Il Circolo Unione di Mistretta, 150 anni dopo – Nostalgia dei Gattopardi, borghesia e classe media a Mistretta-” amplia la relazione tenuta nei
locali della vetusta Associazione cittadina in occasione della celebrazione dell’avvenimento (Natale 2009) della secolare istituzione nata nell’ormai lontano 1859 ad opera della classe nobiliare del luogo, passandone in rassegna gli avvenimenti
salienti, conditi da gustosi episodi avvicendatisi nel tempo, dei quali è rimasta traccia negli archivi cartacei del sodalizio e in quelli mnemonici di qualche suo socio. Questo libro, che si avvale della prefazione dell’attuale Presidente del
Circolo, Mario Salamone, stampato dalla Kompu Grafica di Nicosia, elenca, fra l’altro, tutti i nomi (ad eccezione di alcuni periodi) dei presidenti che si sono succeduti alla sua guida.
Sebastiano Lo Iacono RICORDO DI ENZO ROMANO
“Ricordo di Enzo Romano”, è stato pubblicato nell’immediato periodo successivo al decesso dello scrittore amastratino, sull’onda della profonda emozione
scaturita dalla sua improvvisa scomparsa, avvenuta il 12 giugno dello scorso anno. Si tratta di un colloquio magistrale col “maestro” del dialetto siculo – mistrettese, intriso di sensazioni scaturite dalla musicalità della lingua
dei libri di Enzo Romano, di confessioni, di deduzioni sapienti. Eccone un breve passo: “E’, comunque, linguaggio dell’anima – dice Lo Iacono riferendosi al dialetto di Romano-. È lingua che ci sta nella gola,
come il midollo osseo si trova dentro la colonna vertebrale. Per la verità, il tuo linguaggio è così ricco di articolazioni fonetiche da somigliare a uno spartito. Ci sono miriadi di suoni, risonanze e sfumature che, a volte, stento a
riprodurre e pronunciare. Non è solo questione di accenti tonici. E dire che frequento il siciliano da quando ciclostilavo i copioni di Martoglio! (…) La tua prosa non è dialetto. È autentica poesia dell’oralità. È
letteratura”. È, quella di Lo Iacono, quindi, una articolata professione di fede nella oggettiva valenza della operazione culturale promossa da Enzo Romano coi suoi scritti. Una professione di fede che mi sento di condividere non tanto per
mera partigianeria linguistica quanto per oggettivo valore dell’avvenimento culturale che assume pregnanza quanto meno regionale, avendo egli dato corpo, col linguaggio dei popolari personaggi dei suoi racconti, ad una sorta di ultimo “monumento
linguistico” della Sicilia.
Sebastiano Lo Iacono ISABELLA E LIBORIA
“Isabella e Liboria – La venerabile di Palma di Montechiaro e l’indemoniata di Mistretta”, è un corposo volume di 224 pagine a colori. Ecco
come l’autore stesso ne sintetizza il contenuto: “E’ l’edizione definitiva di una ricerca durata tre anni di letture e scrittura. Un viaggio alla ricerca di due donne siciliane che ebbero singolari esperienze mistiche e contatti
con il demoniaco. Un pezzo di storia della Sicilia che attraversa i secoli XVII e XIX, passando dalla famiglia dei Gattopardi, gli scrittori Tomasi di Lampedusa e Andrea Camilleri, Mistretta (Messina), Palma di Montechiaro (Agrigento) e i "misteri" del monastero
delle Benedettine”. Il libro trae spunto dal racconto di Enzo Romano, pubblicato alcuni anni fa sulle pagine del “Centro Storico” che ha per titolo “Cu
cci u purtau?” e successivamente compreso nella raccolta dal titolo “Cuntari pi nun scurdari” edito dalla Università di Palermo. Tentando di trovare una risposta al quesito posto da Romano, Lo Iacono allarga l’indagine
a tutto tondo, facendo un excursus encomiabile su fatti e avvenimenti che in tempi diversi hanno interessato sia la comunità di Mistretta che quella di Palma di Montechiaro. Con dotta sobrietà l’autore esplora in tutte le sfaccettature
gli eventi legati a due figure femminili tra di loro legate da uno spesso filo di misticismo, mantenendosi all’esterno di qualsiasi precostituita gabbia culturale e lasciando così il lettore libero di interpretare i fatti secondo un personale
convincimento, indenne da qualsivoglia influenza.
Michele Sarrica SEMAFORO ROSSO
Cento anni fa, in Sicilia, era in pieno svolgimento un dramma di vasta portata che coinvolgeva le comunità dell’intera isola. Dall’ultimo decennio del secolo diciannovesimo
fino agli anni venti del secolo successivo, infatti, si attivò un costante flusso migratorio verso l’America che più volte raggiunse apici di grandi dimensioni. Era, allora, in atto uno sconvolgimento demografico destinato a sventrare
i paesi della forza lavoro che non riusciva a sfamarsi a causa di una economia asfittica. Tramite i registri di sbarco di New Jork dove venivano annotati i nomi degli emigrati è
stato calcolato che nell’arco di tempo che va dal 1897 al 1924 (poco più di un quarto di secolo) sbarcarono nella metropoli americana ben 3714 nativi di Mistretta, (paese sui Monti Nebrodi, in provincia di Messina, che ai primi del Novecento contava
una popolazione di circa 13.000 abitanti). Tali numeri, letti in proporzione, sono impressionanti. In quegli anni, dunque, diverse centinaia di migliaia di siciliani sperimentavano l’amaro
sapore della propria sconfitta in patria, così come si può interpretare la incapacità di sopravvivenza, e il conseguente abbandono della propria terra, con tutti le annesse e connesse sensazioni di sradicamento. A questa fiumana di uomini e donne che scappavano dalla miseria e che spesso nella difficoltà della traduzione, si ritrovavano col cognome storpiato, Maria Messina, scrittrice siciliana nata a Palermo, vissuta
nel periodo 1887-1944, i cui romanzi e racconti sono stati ripubblicati dalla casa editrice Sellerio di Palermo, dedicò nel corso della sua attività letteraria tre racconti, il primo dei quali apparve nella raccolta “Piccoli gorghi”
che uscì nel 1911. “…Tutti partivano, nel quartiere dell’Amarelli; non c’era casa che non piangesse. Pareva la guerra; e come quando c’è la guerra, le mogli restavano senza marito e le mamme senza figlioli.
(…) E i meglio giovani del paese andavano a lavorare in quella terra incantata che se li tirava come una mala femmina”. Più tardi, nel dopoguerra, ci furono
i grandi flussi migratori dei nostri corregionali, verso il Nord Europa: Germania, Belgio, Olanda, Francia e poi ancora il Nord Italia. Vite sradicate che pativano le umiliazioni dei divieti e che frequentemente venivano additate come esemplari di razze inferiori.
Mi torna in mente un testo di Stefano Vilardo dal titolo Tutti dicono Germania Germania: (…) Parlano della Germania come fosse il Paradiso / come se i soldi te li regalassero / invece se non ti sfianchi di lavoro / per dieci dodici ore
al giorno / a casa non manderesti che pidocchi”. Penso pure a quel bel libro semi sconosciuto pubblicato nel 2005 da Gaetano Cassisi, originario di Licata, partito a sedici
anni per la Germania dove svolse parecchi mestieri fino a divenire insegnante di lingua italiana, dal titolo “Io italiano, domani altro cantiere”. Certo, fino ad alcuni decenni
fa, non pensavamo che la nostra terra fosse destinata, sia pure con la molteplicità di problematiche che la attraversano, a rappresentare il punto di approdo verso l’eldorado per una molteplicità di etnie provenienti dalle regioni più
impensate e lontane. Invece è successo ed è cronaca quotidiana silenziosamente vissuta da noi tutti la convivenza con i “vu cumprà” sulle spiagge e ai semafori, che rappresentano le presenze più visibili e invadenti,
mentre più silenziosamente molti altri lavorano nei campi, nelle fabbriche, nei bar, nei forni. Talvolta perché direttamente vissuta, più spesso in quanto
raccontata, abbiamo esperienza delle sensazioni del siciliano emigrante. Sconosciamo invece quelle che ospitiamo, seppure vagamente le immaginiamo. Ma noi, che almeno per esperienza
diretta o raccontata sappiamo quali sgomenti hanno attraversato i nostri emigranti, quale sensazioni proviamo nella veste di signori di un territorio quotidianamente attraversato da facce sconosciute delle quali diffidiamo? Abbiamo o no paura di subire, alla
lunga, una cultura profondamente diversa dalla nostra? Di questi quesiti si è fatto interprete Michele Sarrica, autore di questa breve e intensa silloge dall’emblematico
titolo “Semaforo rosso” cosciente che le risposte non le troveremo sigillate dentro la busta del notaio: “Il tuo mondo / è lontano dal mio tempo / e non basta uno sguardo / per capire chi sei” avendo preso atto che “Nel
tuo domani / c’è anche la mia storia”. Quella del poeta è una disanima attenta e a tratti sofferta, non scevra da complessi di colpa per la superficialità con la quale spesso siamo portati ad estraniarci dalle problematiche
altrui: “Ti offro gli avanzi / per capire la fame / la tua… / Sono un vero bastardo”. Ma la estraniazione di cui si fa colpa la sensibilità del poeta è probabilmente dettato dallo istinto di conservazione di chi non vuole sommare
alle problematiche proprie anche quelle altrui. D’altronde non per deduzione egoistica si afferma che “La nostra ricchezza / è la diversità” ma per oggettiva esperienza della terra. Per ciò, al fratello di etnia diversa,
il poeta tende la mano da amico, ammonendolo, al contempo, ad essere rispettoso della ospitalità offerta da una terra da egli amata e venerata (Per questa terra). Mi pare che,
nel panorama poetico contemporaneo, mancava una raccolta tematica d’autore avente per oggetto il tema della immigrazione. Probabilmente, considerata la vastità e la presumibile durata del fenomeno, altri, in futuro, lo riaffronteranno. Intanto
questa antesignana raccolta di Michele Sarrica, tessuta in forma semplice, senza ridondanze lessicali, forse perchè ostici al destinatario internazionale, si propone come candidata alla lettura, come carme di presentazione e/o messaggio di benvenuto.
Filippo Giordano
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